Ogni ipotesi di riforma del processo tributario dovrebbe fare i conti col tema della preparazione e del reclutamento dei giudici, che tuttavia sembra ad oggi il vero e proprio “convitato di pietra” delle proposte, come quella dei deputati del PD, volte ad attribuire alla magistratura ordinaria, previa abolizione delle attuali commissioni tributarie, il relativo contenzioso.

Ora, se vi è ampio consenso in ordine all’esigenza di istituire giudici a tempo pieno, superando l’attuale assetto – se mi si passa l’espressione – “dopolavoristico” delle commissioni tributarie, composte da giudici onorari, togati e non, che svolgono un altro mestiere e dedicano giocoforza alla soluzione delle controversie tributarie tempi ed energie contingentati, non è detto che la devoluzione della materia a “sezioni specializzate” dei tribunali ordinari garantisca necessariamente quel salto di qualità nella preparazione specifica dei giudici che tutti auspicano. E lo stesso varrebbe anche nell’ipotesi di attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo (TAR e Consiglio di Stato).

Per accedere al concorso per posti di magistrato ordinario, infatti, non si potrebbe che far leva sugli attuali requisiti di base, ovvero il possesso di una laurea in giurisprudenza; inoltre, il concorso di accesso non potrebbe che testare la preparazione giuridica del candidato sulle classiche discipline (principalmente, diritto civile, penale, amministrativo), potendo il giudice potenzialmente occuparsi di tutto quanto rientra nella giurisdizione civile e penale. E qui iniziano i problemi, poiché per la soluzione delle più rilevanti controversie tributarie non basta la sensibilità del giurista “generalista”, occorrendo invece una profonda conoscenza delle discipline economico-aziendali.

Non mi sembra affatto, come ritiene Raffaello Lupi, che l’attuale contenzioso tributario sia connotato da un gran numero di controversie estimative, addirittura destinato ad aumentare. Se così fosse, il giudice potrebbe effettivamente entrare sulla scena in seconda battuta, in via residuale rispetto ad una pre-determinazione estimativa e a un filtro amministrativo effettuata da commissioni di valutazione “miste” (riproponendo così, per certi aspetti, un assetto ottocentesco). E il giudice chiamato a stabilire se la valutazione estimativa è stata correttamente effettuata potrebbe in effetti ben operare anche in assenza di specifiche competenze tecnico-tributarie.

La realtà attuale mi sembra però ben diversa.

Moltissime controversie, e certamente quasi tutte le controversie economicamente più rilevanti, si svolgono infatti sul terreno delle questioni di diritto, avendo ad oggetto accertamenti non già di tipo valutativo-estimativo, bensì analitico-contabile.

La riforma degli anni settanta, l’enorme  ampliamento della platea dei soggetti “tassabili in base a bilancio”, i tecnicismi contabili e formali dell’imposta sul valore aggiunto, hanno avuto un esito deteriore sulla tipologia di controlli e accertamenti fiscali, che si sono trasformati in un “tiro al bersaglio” dell’Amministrazione finanziaria sulle modalità con cui la ricchezza (redditi d’impresa e operazioni Iva) è stata dichiarata dal contribuente, e sul corretto modo di interpretare le numerose disposizioni tributarie che entrano in gioco in tale processo di determinazione.

Gli Uffici si sono lentamente ma inesorabilmente disabituati alle valutazioni estimative, preferendo il più comodo terreno delle contestazioni (spesso vere e proprie “disquisizioni”) giuridico-interpretative, rispetto alle quali i giudici appaiono frastornati, per loro carenze tecnico-culturali che dipendono dall’ordinamento degli studi universitari di giurisprudenza, in cui si insegna diritto romano, civile, penale, amministrativo, processuale civile, e così via, ma non trova alcuno spazio la ragioneria, la contabilità, la finanza straordinaria, la conoscenza dei bilanci, lo studio delle operazioni di riorganizzazione aziendale, l’operatività delle aziende di credito, i principi contabili, e ovviamente trova uno spazio ridotto il diritto tributario, sospeso tra il ruolo di "cenerentola" e quello di "spauracchio" per gli studenti consapevoli delle difficoltà che incontreranno nello studio di imposte con un forte substrato economico-aziendale.

I giudici ordinari (ma lo stesso può dirsi per quelli amministrativi), da questo punto di vista, hanno in generale (salvo rarissime eccezioni) una preparazione molto carente, come è del resto quella degli studenti di legge, tanto da gettare nello sconforto. Sto parlando di lacune gravissime, incolmabili con la mera “pratica” d’aula, di giudici (per la maggior parte ottime persone) che stentano a comprendere la differenza tra “utile” e “ricavo”, tra un conferimento e una cessione di azienda, che pensano che il capitale sociale vada custodito in cassaforte, ritengono l’acquisto di azioni proprie un atto di autocannibalismo, guardano a fusioni e scissioni di società come a uno dei misteri dell’universo, si chiedono dove siano finite le somme “accantonate” in un fondo rischi, ritengono il lease-back una stregoneria sicuramente architettata per evadere il fisco, e via discorrendo. Per non parlare degli imbarazzi con la lingua inglese, che difficilmente può essere sostituita nella terminologia delle operazioni finanziarie, dei principi contabili internazionali, della contrattualistica bancaria, etc.

Fino a quanto permarrà questa situazione, non vi è  ragione che possa indurre gli Uffici tributari a cambiare registro, a rivolgere le proprie attenzioni alla ricerca della ricchezza nascosta, anziché alla reinterpretazione di quella già dichiarata. Un giudice che non comprende la questione che gli viene sottoposta sarà umanamente indotto a confermare l’operato dell’Amministrazione fiscale, cioè di un’altra autorità cui sarà portato a dare maggior credito per il ruolo istituzionale da essa svolto.

Ma tutto questo significa che una vera qualificazione della magistratura che sarà chiamata a occuparsi dei giudizi tributari richiederà tempi molto lunghi, e che il punto di partenza non potrà che essere una profonda revisione degli ordinamenti degli studi di giurisprudenza, in cui andrebbe a mio avviso previsto almeno un profilo di “giurista d’impresa”, che chi ambisce ad amministrare la giustizia tributaria nelle aule dei tribunali dovrebbe dimostrare di possedere fin da subito, salvo poi affinarlo con l’esperienza.

La sensazione, allora, è che questo risultato potrà forse un giorno lontano essere meglio raggiunto non già infilando la giurisdizione tributaria nel calderone di quella civile o amministrativa, bensì creando una magistratura togata a sé stante, trasformando le attuali commissioni tributarie in un giudice togato, cui si acceda attraverso uno specifico concorso, dimostrando di possedere quelle qualifiche necessarie a destreggiarsi con una fiscalità che, dopo l’avvento dell’Iva e dell’imposta su un reddito d’impresa agganciato al bilancio, si è profondamente trasformata rendendo insufficiente allo scopo la preparazione da “giurista generalista” qual è quella che oggi garantiscono i corsi di laurea in giurisprudenza. Questa preparazione di base difficilmente potrebbe invece essere ampliata dopo l’ingresso in magistratura ordinaria, specie se l’incarico nelle sezioni specializzate tributarie – come prefigura il disegno di legge presentato dai deputati del PD – dovesse avere una durata temporalmente limitata. Si riprodurrebbe infatti un assetto che ricorda quello attuale, in cui i giudici tributari provengono da altri mestieri, e ad altri mestieri ritorneranno.

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