L’art. 53 della Costituzione, anche senza menzionarli, si riferisce ai tributi con cui viene attuato un «concorso» alle spese pubbliche, cioè in primis alle imposte, ed opera dunque quale criterio per l’istituzione delle entrate, prescrivendo che le stesse siano basate su indici di capacità contributiva degli obbligati, o progettate comunque tenendo conto di tale capacità.

Dalla norma che sancisce il potere pubblico di imposizione fiscale e il correlativo dovere tributario dei consociati non si desumono tuttavia le tipologie e l’ambito dei servizi e funzioni pubbliche da finanziarsi necessariamente con imposte rette dal principio di capacità contributiva, invece che da tributi commutativi (tasse), oppure prezzi e tariffe, o ancora utilizzando schemi di tipo assicurativo, come avviene ad esempio negli Stati Uniti con riguardo alle prestazioni sanitarie pubbliche. D’altra parte, stante il principio di unità del bilancio pubblico e la tendenziale assenza di vincoli di destinazione nell’utilizzo dei tributi riscossi, non vi è di fatto alcuna possibilità di istituire una relazione necessaria e biunivoca tra un certo tributo ed una determinata spesa, divisibile o meno.

Le contrarie opinioni sovrappongono a mio avviso il profilo delle spese con quello delle entrate, il problema dell’erogazione dei servizi pubblici con quello del loro finanziamento: se da un lato è evidente per elementari ragioni di entità del gettito che la maggior parte delle spese pubbliche andrà giocoforza finanziata con tributi ancorati alle capacità economiche degli individui, dall’altro lato, nell’ottica dei diritti costituzionali riconosciuti in via generalizzata ai cittadini (diritto alla salute, all’istruzione, all’assistenza, alla difesa in giudizio, etc.), e dei correlativi «servizi pubblici essenziali» che lo Stato ha il compito di erogare, ciò che conta è garantirne l’effettiva possibilità di fruizione, tema rispetto al quale il modo di copertura del «costo dei diritti», cioè di selezione delle fonti di entrata, è a ben vedere irrilevante.

Dunque, anche prestazioni essenziali come quelle sanitarie potrebbero in astratto essere prioritariamente finanziate con criteri di corrispettività, facendone pagare il costo pieno, secondo logiche di mercato, ai soggetti in grado di sostenerlo, ed esentando o sgravando coloro che invece non possono permetterselo.

Non sono dunque condivisibili le posizioni – come quella recentemente espressa da Enrico De Mita su "Il Sole 24 ore" del 4 febbraio - secondo cui tutte le tasse sarebbero incostituzionali, in quanto anacronistico istituto contrario al principio di capacità contributiva, unica possibile giustificazione del concorso alle spese pubbliche: i servizi pubblici, specie se relativi a diritti dei singoli costituzionalmente garantiti, andrebbero secondo questa tesi finanziati esclusivamente attraverso imposte rapportate a una manifestazione di ricchezza degli individui, mentre le «tasse» sarebbero relitti del passato al di fuori della fiscalità, cioè «prestazioni patrimoniali imposte» non aventi carattere tributario.

Si tratta di una posizione confusionaria e palesemente insostenibile, che in primo luogo non considera che le tasse, di norma fissate a un livello inferiore al costo effettivo del servizio, si comportano come «prezzi politici», che per definizione non coprono mai integralmente il costo complessivo del servizio, il quale viene per la differenza coperto dalla collettività attraverso le imposte, cioè, come si suol dire, addossato alla «fiscalità generale».

In secondo luogo, non vi è alcuna contraddizione – come ritiene invece De Mita - tra il pagamento di una tassa per la domanda di un servizio pubblico e la previsione di sussidi per i soggetti meno abbienti volti a consentire l’accesso a quel servizio: questi ultimi costituiscono infatti forme di esenzione dal pagamento della tassa, pienamente giustificabili con l’opportunità di graduare l’onere dei tributi commutativi correlandolo alle possibilità economiche degli individui, concedendo esenzioni o riduzioni ai soggetti meno abbienti, che diventano «doverose» (e non soltanto opportune) laddove si discuta di diritti costituzionalmente garantiti, come quelli alla salute e all’istruzione.

Ma soprattutto, se si assegna al principio di capacità contributiva un ruolo totalizzante ed esclusivo nel finanziamento delle spese pubbliche, si riducono inaccettabilmente e senza plausibili giustificazioni i margini di manovra a disposizione del legislatore, fino al punto di precludere l’utilizzo di tributi commutativi, prezzi politici e imposte giustificabili anche sulla base del principio del beneficio.

Si tratta invece di opzioni negli indirizzi della finanza pubblica che non possono essere compresse o addirittura eliminate, sia per ragioni di equità e giustizia che nell’ottica dell’efficienza allocativa delle risorse: l’art. 53 della Costituzione impedisce soltanto di istituire tributi non commutativi, cioè imposte, laddove manchi un collegamento con le ricchezze e le possibilità economiche degli individui, ma certo non preclude al legislatore di attuare politiche fiscali di compartecipazione alla spesa da parte degli utenti, cioè di chi richieda la prestazione di uno specifico servizio divisibile, avendone le capacità economico-patrimoniali.

Così, ad esempio, il pagamento di tasse scolastiche, tickets sanitari e diritti processuali, risponde da un lato all’esigenza di chiedere uno specifico contributo ai soggetti che fruiscono di servizi pubblici divisibili, specie se questi ultimi sono ampiamente in grado di sostenerne l’onere, come potrebbe essere il caso dei figli di famiglie abbienti che accedono all’istruzione universitaria. Dall’altro lato, una compartecipazione alla spesa può rendere maggiormente efficiente l’utilizzo delle risorse della collettività, che rischiano altrimenti di essere sprecate laddove l’accesso ai beni pubblici fosse completamente gratuito: la previsione di un contributo da parte del richiedente il servizio è di solito in grado innescare virtuosi meccanismi di controllo della spesa e responsabilizzazione degli utenti, come dimostra l’esperienza empirica nel caso dei tickets sanitari.

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