Valori fiscalmente riconosciuti e valori contabili, tra divergenze, riallineamenti, rivalutazioni e svalutazioni

Sommario

Il superamento del tendenziale riconoscimento fiscale dei valori di bilancio

1

Riflessi sul patrimonio netto dei valori dell’attivo fiscalmente non riconosciuti 2

Riflessi nel patrimonio netto dei “riallineamenti fiscali”. 3

 

Il superamento del tendenziale riconoscimento fiscale dei valori di bilancio.

Il rapporto tra bilancio civilistico e reddito fiscale d’impresa è stato studiato soprattutto nell’ottica del conto economico, mentre riguarda anche il patrimonio aziendale nella dialettica tra valori contabili e valori fiscalmente riconosciuti. Per molto tempo, almeno dalla riforma tributaria del 1973 [1], c’era un tendenziale appiattimento tra valori contabili e valori fiscali, nel senso che

era difficile trovare valori di bilancio che non fossero anche riconosciuti fiscalmente. Ciò accadeva a causa dell’imponibilità delle c.d. “plusvalenze iscritte”, a partire dall’art.12 del decreto Irpeg 598 del 1973, con un principio trasfuso poi nel testo unico ed applicato anche alla patrimonializzazione di costi fittizi [2].

I valori di bilancio erano così di solito anche riconosciuti fiscalmente[3], mentre potevano esistere ulteriori valori riconosciuti fiscalmente, scomparsi dal bilancio a seguito di perdite o svalutazioni non deducibili.

A partire dalle riforme della fine del ventesimo secolo questo tendenziale riconoscimento fiscale dei valori iscritti in bilancio è venuto meno, a partire dall’abolizione della rilevanza fiscale delle plusvalenze iscritte, con la modifica all’art.54 del TUIR, all’epoca contenente la disciplina delle plusvalenze (oggi trasferita nell’art.86 del TUIR medesimo) in base all’art.21 comma 3 della legge 27/12/1997 n. 449. L’occasione contingente dell’abolizione [4] fu il contrasto alla pianificazione fiscale, in quanto la rivalutazione dei beni era un’opportunità sfruttata quando l’impresa realizzava perdite fiscali difficilmente assorbibili nel quinquennio in cui, all’epoca, ne era limitato il riporto; oggi, col riporto delle perdite senza limiti di tempo, questa ragione di cautela fiscale, peraltro aggirabile con la vendita del bene a società del gruppo, o a un terzo con patto di retrovendita, è venuta meno. Le stesse finalità erano perseguibili per la valutazione delle rimanenze finali, compresa l’eventuale “rivalutazione”, del resto non autonomamente esposta in bilancio e quindi anche difficile da percepire. E’ da chiedersi se essa rilevasse anche fiscalmente in aumento dell’imponibile, e simmetricamente come nuovo maggior valore delle rimanenze.  Si tratta comunque di una zona relativamente grigia, per cui valgono le considerazioni di pianificazione tributaria inserite sopra per i beni patrimoniali.

L’irrilevanza delle plusvalenze iscritte, al di là della sua occasionale vicenda d’innesco, si è inserita in una più generale possibilità di valori di bilancio fiscalmente non riconosciuti, nata col decreto del 1997 sulle operazioni straordinarie d’impresa, soprattutto i c.d. conferimenti neutrali d’azienda, le fusioni e le scissioni. Questa tendenza si è alimentata in relazione ai riflessi tributari dei principi contabili internazionali (IAS IRFS), con i suoi forti elementi valutativi; le valutazioni al c.d. fair value come pure l’iscrizione delle imposte differite  attive e passive mal si conciliavano con una rilevanza tributaria. Se quest’ultima fosse stata simmetrica, relativa cioè a svalutazioni e rivalutazioni, si sarebbero poste le premesse per un utilizzo opportunistico con finalità di pianificazione fiscale. Una rilevanza “asimmetrica” della sola rivalutazione sarebbe stata invece troppo punitiva per le aziende, fino al paradosso (esistente fino alla suddetta modifica di fine 1997) dell’impossibilità di rettificare una plusvalenza iscritta imponibile con una minusvalenza iscritta deducibile qualora, negli anni successivi, le ragioni della rivalutazione fossero venute meno.

2 Valori dell’attivo fiscalmente non riconosciuti e riflessi sul patrimonio netto

Con le divaricazioni civilistico-tributarie di cui al paragrafo precedente, le classificazioni bilancistiche si sono arricchite nelle due sezioni dello stato patrimoniale. All’attivo si è creata la bipartizione tra valori fiscalmente riconosciuti e non riconosciuti, mantenendo anche la precedente teorica possibilità di valori fiscali a fronte di elementi patrimoniali stralciati dal bilancio, con conseguente possibilità teorica di imposte differite attive, a fronte di elementi patrimoniali scomparsi dal bilancio, ma ancora in attesa di essere recuperati sul piano tributario. Si arricchiscono però di più, rispetto al passato,  le classificazioni del passivo, delle sue poste rettificative, compresi i fondi per rischi e oneri e del netto patrimoniale, già molto variegate. Alle categorie dei fondi dedotti, dei fondi tassati e delle riserve in sospensione d’imposta, si aggiungono infatti nuove prospettive di analisi. Viene infatti meno l’elemento comune a fondi in sospensione d’imposta e fondi tassati, cioè quello di essere iscritti a fronte di valori fiscalmente riconosciuti dell’attivo, mentre questa corrispondenza biunivoca tributaria con elementi dell’attivo c’era solo per i fondi dedotti. I fondi tassati, proprio in quanto tali, sono autonomi da legami con i rischi o gli elementi dell’attivo a fronte dei quali furono costituiti; tali fondi sono liberamente disponibili da un punto di vista tributario, potendo essere per esempio riclassificati a riserva. Anche per i fondi in sospensione d’imposta manca in genere qualsiasi cordone ombelicale con gli elementi dell’attivo a fronte dei quali furono costituiti, e la sospensione d’imposta dipende dalla distribuzione o l’utilizzazione per coprire perdite di esercizio come diremo più avanti.

La novità, rappresentata dall’iscrizione nell’attivo patrimoniale di valori fiscalmente non riconosciuti, comporta, riflessi a livello di patrimonio netto. Qui l’effettiva novità, rispetto alla tradizione di cui al paragrafo 1, riguarda le riserve fiscalmente irrilevanti, a fronte dell’iscrizione di valori dell’attivo fiscalmente non riconosciuti. Anche qui i valori contabili dell’attivo e del passivo sono autonomi, indipendenti l’uno dall’altro; a rigore dal punto di vista tributario la contropartita delle rivalutazioni fiscalmente irrilevanti dell’attivo potrebbe anche essere rappresentata da un ricavo ordinario, che confluisce nell’utile di esercizio, sussistendone per assurdo le condizioni civilistiche. La contropartita civilistica tipica delle rivalutazioni fiscalmente non riconosciute è però la costituzione di apposite riserve del netto, ma anche qui l’autonomia rispetto all’elemento dell’attivo oggetto di una rivalutazione fiscalmente irrilevante rimane; basta pensare alla vendita del bene dell’attivo per un valore pari o superiore a quello rivalutato, con eliminazione del vincolo civilistico alla riserva. Lo stesso accade, con molti meno vincoli civilistici, per i conferimenti neutri, dove la conferente può anche registrare una plusvalenza civilistica da conferimento, in ipotesi distribuibile, a fronte del maggior valore della partecipazione ricevuta rispetto a quello dei beni conferiti.

Vediamo quale sarebbe, per la società e il socio, il regime tributario della distribuzione di elementi del patrimonio netto costituiti a fronte dell’iscrizione di valori fiscalmente non riconosciuti. Tale distribuzione, per la società erogante e per il socio beneficiario, seguirebbe le sorti delle altre riserve, costituite con utili tassati. Il socio si ritroverebbe così a fruire del regime tipico dei dividendi[5], che ne presuppone concettualmente la tassazione in capo alla società erogante. La particolarità è che, al momento della distribuzione, l’imposizione in capo alla società non è ancora avvenuta, ma è destinata ad avvenire; i valori dell’attivo fiscalmente non riconosciuti, a fronte dei quali sono stati calcolati gli utili distribuiti, porterebbero in prospettiva a un’imposizione fiscale sulla società erogante, il che riporta a coerenza il coordinamento tra l’imposizione della società e dei soci [6]. Quando invece questo riequilibrio viene bloccato dal riconoscimento dei valori fiscali in capo alla società erogante, occorre il correttivo della tassazione in caso di distribuzione, di cui diremo al prossimo paragrafo, dove vedremo che la riserva fiscalmente irrilevante si trasforma in una riserva in sospensione d’imposta.

Dall’irrilevanza al riconoscimento fiscale: ragioni sistematiche dei vincoli sul patrimonio netto

Ci sono molte ragioni di politica tributaria che spingono il legislatore ad offrire strumenti per attribuire rilevanza anche tributaria ai valori di bilancio fiscalmente non riconosciuti. Una di esse, molto indietro nel tempo, riguardava la perdita di valore della moneta, con la possibilità di rivalutazione monetaria gratuita a fronte dell’inflazione, consentita dalla legge 576 del 1976, già citata sopra per il diverso profilo dei conferimenti agevolati e dei valori fiscalmente non riconosciuti appostati dalla conferente. Qui guardiamo invece ai vincoli tributari previsti per le riserve di patrimonio netto costituite in contropartita della rivalutazione. Tali riserve erano un classico esempio di “sospensione d’imposta”, imponibile fiscalmente in caso di distribuzione. Ciò veniva giustificato dalla generalità dei commentatori con la motivazione extratributaria dell’incentivo a mantenere le risorse nell’azienda per “rafforzare l’apparato produttivo”.

Sono però nella sostanza determinanti, ad avviso di chi scrive, ragioni interne al sistema tributario, già anticipate al punto precedente e particolarmente evidenti da quando, nel 1978, dopo un breve periodo di assestamento rispetto al regime ante riforma[7], si coordinò l’imposizione sui soci con quella delle società. Le mitigazioni di regime impositivo per il socio percettore, dal credito d’imposta[8], all’abbattimento dell’imponibile dopo le riforme del 2004, all’imposizione sostitutiva del 26% sui redditi finanziari, si giustificavano con l’imposizione in capo alla società erogante. Quest’imposizione doveva essere precedente o al limite successiva, come per le distribuzioni di utili civilistici generati dalla suddetta iscrizione di attività tributariamente irrilevanti. Una volta attribuita però rilevanza tributaria all’attivo, senza carico fiscale o con un carico fiscale inferiore a certe soglie, la distribuzione della contropartita nel patrimonio netto non meriterebbe più le mitigazioni suddette. Queste ultime sono infatti previste a fronte del carico fiscale ordinario sulla società, ma è troppo complesso effettuare interventi correttivi sui soci; questi ultimi possono infatti essere molto numerosi e diversamente collocati nello spazio, in Italia e all’estero. Si preferisce quindi ripristinare l’ordinario livello impositivo sulla società tassando lei stessa in caso di distribuzione.  Lo stesso vale per le “rivalutazioni a pagamento”, dirette ad “ottenere gettito immediato” senza aumentare le imposte, ma a prezzo di un minore gettito futuro, quando i beni saranno venduti o ammortizzati ([9]). Spesso però l’imposta sostitutiva prevista in questi casi è troppo bassa, rispetto all’ires, per giustificare anche gli abbattimenti d’imposta suddetti, in capo ai soci. D’altro canto, se l’imposta sostitutiva è abbastanza elevata da giustificare le mitigazioni in caso di distribuzione, essa rischia di non essere appetibile per i contribuenti, interessati magari ai maggiori valori fiscali, ma non alla distribuzione. Per fronteggiare queste situazioni sono stati previsti vari criteri, come un periodo di decantazione tra la rivalutazione, con pagamento dell’imposta sostitutiva, e la “spendibilità differita” dei maggiori valori fiscali o la distribuibilità differita delle contropartite del patrimonio netto in questo modo iscritte.

In questa cornice si colloca l’accorgimento del 2020 sull’abbinamento tra un’aliquota d’imposta sostitutiva ridotta, per ottenere il maggior valore fiscalmente riconosciuto all’attivo, e l’obbligo di una sospensione d’imposta su una posta del patrimonio netto. Idealmente questo schema si addice alla rivalutazione dell’attivo, con pagamento dell’imposta sostitutiva del 3%, vincolando poi in sospensione d’imposta la corrispondente quota di patrimonio netto così formata. Sarebbe invece penalizzante per il contribuente vincolare riserve libere già a suo tempo assoggettate a IRES, in quanto l’onere fiscale complessivo sarebbe superiore a quello ordinario, in quanto all’Ires a suo tempo scontata si aggiungerebbe il 3% di imposta sostitutiva e il rischio di una nuova ires in caso di distribuzione. Generalizzando la pietra di paragone indicata sopra, cioè quella della rivalutazione dell’attivo con l’iscrizione di una riserva nel netto, lo spirito di questo microsistema tributario sembra quello di vincolare poste di patrimonio netto fiscalmente irrilevanti, o al limite il capitale sociale, come rilevato anche da interpretazioni dell’agenzia delle entrate. E’ quindi del tutto normale che siano utilizzate riserve fiscalmente irrilevanti iscritte in bilancio a fronte di precedenti rivalutazioni, stante l’autonomia tributaria e in buona misura anche civilistica tra maggiori valori contabili dell’attivo e loro contropartite nel patrimonio netto.

A prima vista potrebbe poi sembrare che la compensazione tra riserva vincolata ed elemento dell’attivo di riferimento comporti un indebito beneficio tributario e debba pertanto comportare la tassazione della riserva vincolata. A fronte di queste ragionevoli argomentazioni, presenti in alcune interpretazioni dell’agenzia, si potrebbe però obiettare che la sparizione della riserva elimina i suddetti rischi di salti d’imposta, escludendo la sua distribuibilità ai soci. Non vediamo cioè la differenza sostanziale, in una prospettiva di logica puramente tributaria, tra la sparizione della riserva a fronte di perdite di esercizio, transitate dal conto economico, ancorchè non riconosciute fiscalmente, e oppure a fronte di una compensazione diretta tra attivo  e patrimonio netto. E' un po' come se, dopo aver iscritto i saldi attivi di rivalutazione monetaria della legge 576 del 1976, li si fosse poi compensati svalutando i valori dell’attivo, eliminandoli dal bilancio e mantenendoli solo fiscalmente. Insomma, con la sparizione della riserva la rivalutazione diventa così “solo fiscale”, esaurendo i suoi effetti in capo alla società, senza rischi di estensione ai soci.

 

[1] Si potrebbe indagare sui rapporti tra bilancio civilistico e reddito imponibile prima della riforma del 1973, ma le narrazioni pratico professionali sembrano impantanate in un eterno presente, di cui poi si perde la memoria, e che non ha futuro.

[2] Sul tema, in senso conforme, cassazione tributaria 1132 del 20 gennaio 2006.

[3] Una delle poche eccezioni era rappresentata dalle riserve da conferimento agevolato in base alla legge 576 del 1976 in capo alla conferente, per la quale il maggior valore contabile attribuito alla partecipazione ricevuta rispetto a quello dei beni conferiti era fiscalmente irrilevante, anticipando in capo alla conferente quanto diremo più avanti per gli attuali c.d. conferimenti neutri o bisospensivi.

[4] Che ricordo personalmente in quanto presi parte alle relative discussioni coi tecnici del ministero delle finanze dell’epoca.

[5] Un tempo credito d’imposta, poi riduzione dell’imponibile, oggi assoggettamento all’imposta sostitutiva sui redditi finanziari con aliquota del 26%, che porta a un’aliquota complessiva in linea con l’aliquota massima dell’Irpef. Si tratta di un equilibrio casuale, abbastanza instabile ed esposto a variabili assetti di politica tributaria.

[6] Lupi, Diritto delle imposte, Giuffrè, 2020, capitolo 5.

[7] In cui s’era assestato un coordinamento tra imposizione di ricchezza mobile sulla società e complementare sul socio, evitata però da una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, già all’epoca chiamata “cedolare secca”.

[8] In una certa fase accompagnato dalla maggiorazione Irpeg di conguaglio oppure distinto tra il canestro suscettibile di dar luogo a rimborsi e canestro suscettibile di dar luogo solo a detrazione.

[9] ) Economicamente queste leggi di rivalutazione a pagamento comportano  una specie di “Prestito d’imposta”, di cui  il contribuente ottiene un rimborso, con gli interessi, negli anni successivi.

0
0
0
s2smodern