DE-PRIVATIZZARE LO STUDIO DELLE FUNZIONI PUBBLICHE E DIRITTO COME STUDIO SOCIALE (IL CASO DELLA FUNZIONE TRIBUTARIA)

Scaletta per seminario di dottorato in diritto pubblico all’università di Roma Tor vergata del 16 febbraio 2021 -I riferimenti ai paragrafi vengono da Lupi, Studi sociali e diritto, in Open access su didatticaweb

 

Il diritto nasce come sapere per tecnici (par.2.1), ma si trova davanti a studi sociali mai davvero decollati (par.1.5); lo conferma la crisi degli studi economici e della loro modellistica sociomatematica, col passaggio alle esposizioni convivial valorial narrative degli ultimi premi Nobel (Thaler, Acemoglu, Zingales e Banerjee-dufflo, Mazzucato). Sono ormai i giornalisti o personaggi analoghi a svolgere il ruolo aggregante degli studi sociali (par.1.4) il che avviene in modo del tutto inadeguato, diretto all’audience anziché agli interessati ai diversi temi esaminati (par.1.8).

Il diritto non può restare indifferente

a questa crisi degli studi sociali, contribuendo a loro metodologie  davvero “condivise” (par.1.5) , che coordinino quanto di sensato si trova nelle varie prospettive di analisi, superando il monismo metodologico che guarda alle scienze fisiche e oggi divaga su neuroscienze e algoritmi (par.1.1).

Anche all’efficienza del diritto come tecnica (par.2.5) servono riflessioni generali sugli studi sociali, come quelle del positivismo giuridico, almeno come tentativo. Un punto di partenza è la nascita del diritto con le società umane (ubi societas ibi ius), millenni prima degli studi sociali, con l’obiettivo pratico casistico, della soluzione pacifica dei conflitti, ne cives ad arma ruant. Anche se in questa prospettiva il diritto  analizza tutti i possibili riflessi della convivenza umana, lo fa con un’ottica  pratica, non conoscitiva. L’obiettivo pratico della pace sociale, con la soluzione di conflitti particolari, prevale sullo studio sociale come ricerca di spiegazioni; quest’ultima è la prospettiva scientifica, la cornice della pratica, che nel diritto dei privati è immanente nell’esperienza di vita, nel bagaglio culturale diffuso sui rapporti di produzione e di scambio. Questo bagaglio è  in genere più che sufficiente a inquadrare l’esercizio della funzione di giustizia, magari in modo insufficiente alla correttezza delle singole decisioni,  ma sufficiente alla tenuta sociale del sistema.

Le altre funzioni pubbliche non giurisdizionali, come quelle di sicurezza, urbanistica, infrastrutturale, ambientale,  tributaria, hanno invece bisogno di spiegazioni; esse servono al relativo controllo sociale, cui è in ultima analisi demandata l’efficienza di funzioni fuori mercato.

L’elaborazione di queste cornici richiede anche un retroterra giuridico, di cui sono sprovvisti economisti e altri studiosi sociali. Si tratta di una cassetta degli attrezzi fatta di categorie concettuali tipiche della tradizione giuridica privatistico-giurisdizionale. Si tratta dell’idea di regole, valori, principi, contratto, interpretazione, sentenza, esecuzione, responsabilità e tante altre. Esse vanno però riposizionate dalla prospettiva tecnico pratico casistica a quella conoscitiva, cioè degli studi sociali. Si tratta di intrecciare la tradizionale prospettiva tecnica con quella scientifica, e di trovare, in ogni interlocuzione, il più appropriato coordinamento tra le due. E’ una prospettiva che accomuna privatisti e pubblicisti, perché anche questi ultimi hanno obiettivi tecnici, come quelli degli avvocati amministrativisti, quando impugnano provvedimenti amministrativi o gare d’appalto (anche se per queste ultime è utile una cornice sociale sul c.d. procurement management); anche ai privatisti, inversamente, è utile una cornice sociale nell’affrontare controversie su temi delicati, come di lavoro, famiglia o risparmio.  

Ci sono quindi da coordinare 4 prospettive quella privatistico giurisdizionale e quella pubblicistica, nonché quella tecnico-pratica e quella di spiegazione sociale. Lo sfasamento tra queste prospettive,  e la forza d’inerzia della tradizione privatistico-giurisdizionale, hanno provocato grande confusione nel diritto pubblico, che sotto molti profili ha guardato a categorie concettuali privatistiche. Si pensi ai modelli di collegamento tra privati e pubbliche amministrazioni, per cui in diritto tributario furono utilizzate categorie concettuali come l’obbligazione, il diritto di credito (del fisco), il "debito" (del contribuente), il "rapporto giuridico di imposta". La nascita di questa fantomatica obbligazione dal presupposto del tributo ovvero dagli atti di controllo degli uffici tributari fu oggetto di un’estenuante disputa estintasi per consunzione, su cui il mio post l’obbligazione tributaria:dietro le polemiche estinte per consunzione in wwwfondazionestuditributaricom. Categorie privatistiche si ritrovano nella discussione sulla natura del processo tributario, sulle dichiarazioni  fiscali, sulla sostituzione di imposta (par.3.6), sulla nullità degli atti impositivi. Ancora oggi il diritto soggettivo, tipico del settore privatistico giurisdizionale, è utilizzato per spiegare la posizione reciproca del contribuente e del fisco. Non si considera che il diritto soggettivo è un concetto privatistico, dove la comunità protegge misura e limita le pretese di qualcuno verso qualcun altro, che poi ha il proprio inverso diritto soggettivo, uguale e contrario, verso il creditore a non pagare più del dovuto. Diritto soggettivo e dovere soggettivo sono insomma due facce della stessa medaglia, come il credito e il debito, governati dall’interesse al bene della vita. Trapiantare tutto questo nel diritto pubblico disorienta le funzioni non giurisdizionali, dove il rapporto è bilaterale, tra l’individuo e il pubblico ufficio. Qui si guarda all’esercizio della funzione pubblica, in modo perequato tra tutti gli interessati,  più che al risultato, che se viene sopravvalutato può far pensare a un danno civilistico da inadempimento. Qui la funzione pubblica non sovraintende a un conflitto tra due privati ma si attiva in prima persona tenendo inevitabilmente conto delle risorse e dei tempi disponibili. E’ questa quindi l’essenza dell’interesse legittimo, che è più di un esercizio di poteri, concetto sempre contrastato, ma di funzioni, concetto più ampio, applicabile anche a sanità o istruzione.

La matrice privatistica contrasta la focalizzazione delle idee di funzione, di discrezionalità e di spiegazione e in ultima analisi di socialità; ne risentono l’idea di lavoro di gruppo, fondamentale nelle aziende e nei pubblici uffici, la riflessione sui doveri e le responsabilità, come quelle dei funzionari cioè degli ingranaggi di macchine più complesse.  L’atteggiamento privatistico, e la sua prospettiva tecnico – pratica, spingono a cercare risposte “nelle norme” e nelle sentenze. Purtroppo quando queste ultime sono redatte da chi è a sua volta confuso, o spinto da obiettivi di immagine politica, non offrono spiegazioni agli interessati al tema, cioè agli interlocutori di riferimento degli studiosi sociali. La prospettiva privatistica oscilla quindi tra la decifrazione di regole e l’auspicio politico; questo rapporto difficile con la politica si ritrova nella dialettica irrisolta tra legge e giudice, trascurando lo studio sociale, con ibridi socialmente autoreferenziali come il costituzionalismo. L’immagine del giurista studioso sociale è ostacolata anche da quella del giurista avvocato. Quest’ultimo ifatti si presenta per definizione “parziale”, come tecnico che difende una certa tesi, anziché come uno studioso sociale che cerca di capire e spiegare.

Torniamo a diritto tributario è l’unica materia, con comunità scientifica autonoma, aggregata dallo studio di una specifica funzione pubblica, quella della determinazione dei presupposti economici d’imposta. Interrogarsi sull’opportunità di una sua permanenza come materia autonoma (par.4.7 di diritto amministrativo dei tributi, anch’esso in open access su didatticaweb par.4.7), al di là delle sue esperienze negative, è uno spunto per riflessioni generali. Per studiare diritto tributario occorre infatti mettere a fuoco una serie di concetti ricorrenti in tutte le funzioni non giurisdizionali (sicurezza, ambiente, urbanistica, istruzione etc.). Il rapporto con la politica, l’unilateralità dell’azione amministrativa, la discrezionalità, il ruolo del giudice tra sostituzione e annullamento rinvio sono temi generali, da mettere a fattor comune. Il rischio dell’autonomia è dover compiere da soli gli stessi percorsi necessari allo studio di altre funzioni pubbliche, rinunciando a importanti sinergie con esse. Il diritto come studio sociale, nella misura in cui è necessario, coinvolge infatti tutti i pubblicisti insieme, e anche i privatisti che ne hanno voglia.

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