Dell’emendamento al decreto fiscale sui limiti ai prelevamenti bancari, oltre i quali scatterà la presunzione di evasione, e del connesso panico che ne è derivato a un’opinione pubblica frastornata, già tra poche ore non si parlerà più, anche quest’episodio finirà nell’oblio come tutto il resto, e forse non varebbe nemmeno la pena di occuparsene, se non fosse che, a volte, anche attraverso il buco della serratura si può osservare l’universo (tributario, s’intende), o almeno una sua parte. Per inquadrare correttamente il tema occorre fare una premessa. Come credo sia noto la presunzione legale relativa secondo cui i versamenti su un conto bancario si considerano, per gli imprenditori e i lavoratori autonomi, ricavi non dichiarati, ribaltando sul contribuente l’onere di provare il contrario, esiste da moltissimo tempo. Si tratta di una presunzione che ha una sua logica intuitiva, e che a rigore non richiede apposite norme “sulle prove”: l’Amministrazione finanziaria potrebbe benissimo, anche in assenza della presunzione legale, accertare l’omissione di componenti positivi di reddito a partire da versamenti sui conti che non appaiano in altro modo spiegabili, dato il particolare contesto, ovvero la tipologia di contribuente, le attività da questo svolte, la frequenza dei versamenti, il loro importo, e così via. E a rigore una tale presunzione semplice potrebbe (e può) operare nei confronti di chiunque, anche di soggetti non esercenti imprese o lavoratori autonomi (devo qui dare per acquisita la differenza tra “presunzione legale relativa”, cioè la presunzione prevista dalla legge, e la “presunzione semplice”, ovvero quella lasciata al libero apprezzamento dell’interprete). Un insegnante, un pensionato o un lavoratore dipendente che versano frequentemente somme sul proprio conto corrente potrebbero essere ad esempio rispettivamente accusati di averle tratte da lezioni private non dichiarate, canoni di locazione occultati, lavoretti extra od ore di straordinario svolte in nero. E ovviamente a maggior ragione un accertamento presuntivo di questo tipo potrebbe essere fatto nei confronti di un imprenditore o lavoratore autonomo, anche se non vi fosse alcuna “presunzione legale” in tal senso, sempre tenendo conto delle caratteristiche del caso concreto, e della normale dialettica del giudizio di fatto.

In un sistema tributario in cui l’Amministrazione si assume responsabilità in sede accertativa, valutando i redditi che pensa essere stati occultati, non vi sarebbe alcun bisogno di “presunzioni legali relative” di questo tipo, cioè di automatismi che hanno invece l’effetto di deresponsabilizzare gli Uffici finanziari: questi ultimi, infatti, tenderanno ad appiattirsi sulla presunzione legale, senza provare a suffragare l’ipotesi accertativa adattandola al caso concreto, correndo così il rischio di elevare accertamenti assai lontani dalla realtà, destinati spesso a non reggere al giudizio delle commissioni tributarie, che quando si tratta di compiere valutazioni “sul fatto” si dimostrano tutto sommato all’altezza del compito.

Una presunzione legale che istituisce l’equazione “versamenti uguale ricavi” (o “compensi”) è dunque il riflesso della deleteria tendenza ordinamentale a fornire copertura normativa ad ogni più piccolo dettaglio dell’attività amministrativa di gestione, accertamento e riscossione dei tributi, ben di là di quanto richiedere il principio di riserva di legge correttamente inteso. Forse per un retaggio dei secoli andati, prima del compiuto passaggio al parlamentarismo democratico, in cui i funzionari della corona erano spesso accusati di agire in modo arbitrario, vessatorio, discriminatario, e così via, nello svolgimento di un’attività impositiva  che non trovava giustificazione sul piano della rappresentanza democratica, si è giunti all’eccesso opposto di una iper-regolamentazione normativa di aspetti che dovrebbero essere lasciati alla sensibilità, alla responsabilità, e all’esperienza dei verificatori fiscali, potendo sempre il contribuente contare sulla giustiziabilità dei loro atti.

E uno dei tanti punti di emersione di questo “impero della legge” sta proprio nella presunzione legale sui versamenti bancari, di cui appunto non vi sarebbe bisogno, e che invece ha l’effetto di irrigidire la dialettica del giudizio di fatto, in cui l’arbitrio che si è voluto far uscire dalla porta (limitando la discrezionalità dell’Amministrazione), finisce per rientrare dalla finestra (proprio perché l’Amministrazione viene disabituata a distinguere situazioni che meriterebbero un trattamento differenziato).

La presunzione, e qui ci avviciniamo alla polemica di questi giorni, ha tuttavia una “dark side”, un lato oscuro: accanto a quella (abbastanza intuitiva e in ultima analisi superflua, se non dannosa per le ragioni già viste) che lega i versamenti a ricavi o compensi non dichiarati, vi è una seconda presunzione che si riferisce ai prelevamenti, anch’essi considerati, salva prova contraria da parte del contribuente, “ricavi” o “compensi” non dichiarati.

E qui siamo di fronte a un collegamento inferenziale assai meno intuitivo, anzi per certi aspetti “contronatura”, dato che si collega al prelievo, cioè al plausibile sostenimeno di una spesa, un componente positivo di reddito conseguito dal contribuente medesimo. E la spiegazione che si è concordemente sempre attribuita a questa presunzione legale è che la stessa sottenda un doppio passaggio inferenziale, ovvero che (i) la spesa sia servita per effettuare degli acquisti di merce, materie prime, o altri fattori produttivi “in nero”, e (ii) che tali acquisti abbiano originato dei ricavi “in nero”.

Ma una presunzione di questo genere è molto più problematica dell’altra, posto che il suo grado di verosimiglianza è più labile e dipende in grande misura dalle caratteristiche dell’attività esercitata dal contribuente: un conto ad esempio è un’impresa di rivendita di merci, altra cosa è un’attività di prestazioni di servizi. Inoltre, la presunzione in questione rischia di risultare un’arma spuntata, alla luce dell’esigenza, per l’Ufficio finanziario, di tener conto ai fini della determinazione del reddito accertato di quei “costi neri” utilizzati per inferire dei “ricavi neri”, con il paradosso di un accertamento di un maggior reddito pari a zero. Il punto ancora una volta non è trasformare meccanicamente dei costi d’impresa (presunti a partire dai prelevamenti non giustificati) in ricavi non dichiarati, ma ricostruire secondo criteri di ragionevolezza e alla luce di tutte le caratteristiche del caso di specie quale può essere stato il volume d’affari e il reddito del contribuente sottoposto a verifica. Operazione non certo agevole ma che non può essere surrogata da meccanismi legali, come testimonia la triste fine che stanno facendo gli studi di settore (certo nessuno li rimpiangerà).

D’altra parte, queste presunzioni impattano anche su soggetti che, oltre che svolgere un’attività economica, sostengono spese di consumo in qualità di privati, come accade per i professionisti e i lavoratori autonomi (ma lo stesso si potrebbe dire per gli imprenditori individuali), per tale ragione esclusi dalla presunzione in oggetto a seguito di una recente sentenza della Corte Costituzionale, commentata qui.

L’emendamento da cui siamo partiti interviene dunque in questo contesto, stabilendo un limite quantitativo (1000 euro giornalieri o 5000 euro mensili) oltre il quale la presunzione legale relativa ai prelevamenti non dovrebbe più trovare applicazione, a invarianza di platea soggettiva.

Il riferimento ai “ricavi” è infatti univocamente rivolto ai soggetti titolari di reddito d’impresa, mentre la parola “compensi” (riferibile ai lavoratori autonomi) era già caduta per effetto della su citata sentenza della Corte. Questa norma è stata però affrettatamente interpretata dalla stampa per l’esatto contrario di quello che stabilisce: l’intendimento del legislatore era di limitarne l’applicazione, non già di introdurre una nuova presunzione prima non operante o una fonte di innesco per controlli e accertamenti. Del resto, davvero non avrebbe senso estendere la presunzione legata ai prelevamenti (già di per sé traballante per le imprese) al di là dei confini segnati dal reddito di impresa: per un soggetto non imprenditore, i prelievi dal conto alimentano infatti verosimilmente spese personali, cioè consumi e non “costi” inerenti alla produzione del reddito. Se insomma il legislatore provasse ad allargare la presunzione connessa ai prelevamenti bancari ad altre categorie soggettive (lavoratori dipendenti e in genere soggetti non imprenditori), introdurrebbe una norma palesemente irragionevole e che verrebbe dichiarata incostituzionale, a maggior ragione dopo quello che è accaduto per i lavoratori autonomi.

Semmai, frequenti prelevamenti di importi consistenti potrebbero in determinate circostanze far sorgere il sospetto di un utilizzo per pagamenti in nero, ma in questo caso il reddito da accertare non sarebbe certo quello di colui che ha fatto i prelievi, ma semmai dei suoi fornitori, che però ovviamente il fisco non conosce.

Chiarito che l’emendamento non allarga ma semmai restringe le maglie della presunzione, questo ancora non significa che il suddetto modo di procedere sia – per ragioni assai diverse da quelle apparse oggi sulla stampa – necessariamente condivisibile: in primo luogo perché sottende ancora una volta una concezione deleteria e meccanicistica dei poteri amministrativi e dei rapporti tra legge e attività amministrativa di accertamento. La presunzione sui prelevamenti bancari, a mio avviso, andava (a maggior ragione dopo l’intervento della Corte, e dopo lo stato confusionale dimostrato sul tema dalla Cassazione, recentemente espressasi) semplicemente abrogata, una volta per tutte, sia per la sua estrema opinabilità, sia perché sarebbe stato un segnale rivolto all’Amministrazione finanziaria, cui è giusto chiedere di assumersi responsabilità, senza che sia il Parlamento a dover legiferare su ogni dettaglio. Il che non avrebbe affatto eliminato la possibilità per l’Amministrazione di costruire, caso per caso e attraverso presunzioni semplici, eventuali accertamenti di componenti positivi di reddito omessi, purché credibili e in grado di reggere in giudizio.

Inoltre, l’introduzione di una soglia avrà l’effetto di introdurre una franchigia in via legislativa, con l’effetto perverso di proteggere la diffusa micro-evasione alimentata attraverso il circuito costi neri-ricavi neri: dubito infatti che, se passerà l’emendamento, vi sarà qualche Ufficio che si azzarderà a presumere ricavi occultati in presenza di prelevamenti sotto soglia, di piccolo importo, anche se questi fossero numerosissimi e anomali rispetto al contesto. Scatterà infatti il solito atteggiamento mentale meccanicistico del potere amministrativo in questo Paese, che considera implicitamente vietato ciò che non è espressamente previsto dalla legge. Se l'eliminazione per tutti della presunzione avrebbe riattribuito un potere accertativo responsabile all'Amministrazione, il suo mantenimento con le soglie perpetuertà verso l'alto gli automatismi, ed escluderà ogni potere di intervento verso il basso, con distorsioni di segno opposto che non si compenseranno. Ma tanto si potrà sempre dare la colpa di tutto ai "grandi evasori" e alle multinazionali.

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