Secondo il New York Times, Donald Trump avrebbe evitato ("avoided") di pagare le imposte federali negli ultimi vent’anni, grazie a una ingente perdita (oltre 900 milioni di dollari) dichiarata nel 1995, conseguente ad alcuni cattivi affari nel settore alberghiero e delle linee aeree.

I redditi degli anni successivi sarebbero così stati “cancellati”, “spazzati via”, con una operazione dipinta come un beneficio ottenuto grazie a una sorta di espediente, per quanto legale. La stampa italiana che ha rilanciato la notizia va addirittura oltre, parlando di vera e propria "evasione" (per il corriere.it, ad esempio, “Il New York Times svela l’evasione fiscale di Trump: vent’anni di sconti sulle tasse”).

Al netto dei reali intendimenti sottostanti a una notizia del genere, riaffiora così il solito analfabetismo sulla determinazione dei tributi: le perdite fiscali non sono un beneficio, un’agevolazione o addirittura un espediente evasivo, ma un meccanismo fondamentale per la corretta determinazione dei redditi tassabili, indice di capacità contributiva. Per misurare il reddito di un individuo occorrerebbe prendere in considerazione la sua intera esistenza, ma ovvie esigenze di cassa e continuità del gettito inducono a frazionarla in tanti periodi di imposta; poiché i redditi possono fluttuare, e trovarsi frammisti a periodi in cui vengono conseguite delle perdite, queste ultime possono essere “riportate a nuovo”, e scomputate dai redditi degli anni successivi (carry forward), e in alcuni ordinamenti anche precedenti (carry back). Il mancato riporto delle perdite si tradurrebbe dunque nella tassazione di un arricchimento inesistente.

Se si presenta all’opinione pubblica il riporto delle perdite come un meccanismo evasivo siamo invece alla frutta, allo spappolamento mentale, come quando si descrive una fantasiosa ipotesi di ipertassazione dei redditi elevati come una “imposta patrimoniale”. In questo la stampa internazionale sembra a prima vista presentare gli stessi vizi di quella italica (mal comune mezzo gaudio?), ma tranquilli, noi riusciamo sempre a fare peggio.

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