Abbiamo rilevato , in questi  altri post , la carenza di interventi dell'accademia tributaria  nella discussione sulla determinazione dei tributi, ed ora chiediamoci come gli studiosi sociali dovrebbero intervenire sul tema, distinguendosi sia rispetto alla tecnica professionale sia rispetto all'ordinaria discussione politica. Per farlo gli studiosi dovrebbero  collegare l'attualità giuridico-legislativa coi problemi strutturali della funzione tributaria. In altri termini dovrebbero chiedersi in quale misura gli interventi legislativi recenti rivelino, e fronteggino, tendenze di opinione diffuse nel pubblico dibattito sulla determinazione dei tributi. La condizione del fisco è sotto gli occhi di tutti, ma variamente interpretata, secondo tendenze di opinione, variamente intrecciate, che colgono sfumature diverse del fenomeno e coesistono nella mente di tutti gli esponenti della pubblica opinione che discutono del tema. L'altra faccia del problema della determinazione dei tributi è l’evasione, con le sue varie  interpretazioni, sensate, ma superficiali, socialmente laceranti, e soprattutto scoordinate tra loro; leggendo la normativa attuale in controluce, si capisce che questa tendenza di opinione resta viva ma perde smalto, soprattutto nella sua interpretazione “criminalistica”, basata sull'onestà e la disonestà, con l'evasore assunto a novello untore; benchè politicamente accantonata “di fatto” questa tendenza non è stata razionalizzata e si affianca alla tendenza di opinione “antifisco”, anti equitalia, anti vessazioni dell’Agenzia delle Entrate, fusa con la “tutela del contribuente” e le generali tendenze antitasse, connesse a disfunzioni generali della macchina pubblica ben al di là della funzione tributaria. La sintesi legislativa è sensibile alla tendenza “antivessazioni” suddetta, senza però ovviamente rinnegare la tendenza di opinione tradizionale, della "lotta all’evasione" , né accorgersi che proprio lei ha innescato le fantomatiche "vessazioni" [1]Il contatto tra uffici tributari e contribuenti, finalizzato alla valutazione estimativa della ricchezza non intercettata dalle organizzazioni aziendali si attenua. Prende piede, nel retropensiero legislativo, una tendenza di  compromesso a esportare la determinazione giuridico contabile dei tributi anche dove mancano organizzazioni con uffici contabili. Si alimenta così l’idea di una determinazione contabile di massa della ricchezza attraverso i conti bancari , le fatture elettroniche, gli incroci (tipo elenchi clienti fornitori, oggi “spesometro), le lettere dell’Agenzia delle entrate, accorgimenti antifrode auto applicativi tipo reverse charge. A questo filone si lega il “precompilato”, con un messaggio mediatico di massa dove da una parte il fisco  semplifica e dall’altro sorveglia. La stima della ricchezza non registrata, sia attraverso gli studi di settore, sia attraverso l’accertamento basato sulla spesa, passa gradualmente in secondo piano (è politicamente fastidiosa, anche se non la si  rinnega). Il diversivo delle contestazioni interpretative sul dichiarato viene gestito nei suoi malumori di vario tipo: la c.d. cooperative compliance verso i grandi contribuenti cerca di tenere assieme vari profili di comunicazione politica: da una parte strizza l’occhio al mito dei grandi evasori, senza smentirlo e sconfessarlo una volta per tutte, in quanto ciò sarebbe politicamente perdente; le aziende restano quindi “sorvegliate speciali” sul diversivo delle questioni di diritto ([2]), ma si attenua il malessere profondo dei managers col tutoraggio cooperativo; col mantenimento di questo approccio si salda la preferenza operativa dell’agenzia e della GDF, sul piano dei risultati di servizio, verso poche contestazioni , facilmente gestibili in punto di diritto, verso soggetti “seri” , che non si spaventano e “non scappano”[3]; l'agenzia preferisce infatti ridurre al "minimo sindacale" fastidiose stime di ricchezza non registrata nei confronti di milioni di piccole attività assai più “rognose”, o delle frodi del capitalismo familiare, difficilissime da trovare nella massa della documentazione aziendale.

Sono tanti modi sensati, cioè provvisti di un filo logico, con cui il dibattito pubblico percepisce alcuni aspetti della funzione tributaria, mentre la politica risponde e le istituzioni reinterpretano queste percezioni e indicazioni della politica nel modo operativamente più comodo, anche in termini di prestigio e di immagine pubblica. I tecnici, gli operatori delle aziende, i professionisti, gli stessi contribuenti ([4]) subiscono il malessere derivante da una confusione dipendente  dallo scoordinamento tra una serie di riflessioni sulla determinazione dei tributi. Il coordinamento tra le varie percezioni della funzione istituzionale tributaria non spetta a coloro che le provano cioè l’opinione pubblica, la politica, le istituzioni, o i tecnici-professionisti; anche questi ultimi sono infatti dei pratici , desiderosi di risolvere problemi specifici dei clienti, e che per questo sono particolarmente danneggiati dalla confusione; anzi, la mancanza di spiegazioni di insieme della funzione istituzionale tributaria si ritorce proprio contro i tecnici, la cui professione si svuota di senso in questo clima, costellandosi di adempimenti inutili e fastidiosi, sempre più difficili da trasferire economicamente a carico dei clienti. Si conferma la marginalità della cultura giuridico-economica tecnico-professionale (tipo IPSOA –Sole24ore) se prima non si formano le spiegazioni sociali di insieme teorico-scientifiche delle relative funzioni istituzionali (altri settori del diritto avvertono meno questa esigenza perché più alla portata del bagaglio culturale della pubblica opinione e con tendenze più facilmente coordinabili da parte della politica). Nel settore tributario servono quindi studiosi sociali per incardinare le varie tendenze d’opinione sul fisco, coi relativi punti di emersione legislativi, sullo sfondo delle informazioni e valutazioni rilevanti per determinare la base di commisurazione dei tributi. Non serve  quindi una dottrina tributaria che analizzi le innumerevoli contingenti sfaccettature tecnico professionali degli interventi legislativi suddetti. Bisogna piuttosto di contestualizzarli, trovarne il senso, incardinandoli sulle tendenze di opinione di cui si fanno interpreti, a loro volta inserite in una cornice generale della determinazione dei tributi (la c.d. “funzione istituzionale tributaria”). Senza questo sforzo degli studiosi, la politica e le istituzioni si faranno interpreti delle tendenze di opinione suddette, anche senza rendersene conto e in tutta buona fede, in modo riduttivo e innocentemente opportunistico; cioè secondo convenienza in termini di consenso e di comodità operativa, o un misto dei due. E’ infatti abbastanza chiara la miopia delle tendenze suddette, magari caratterizzate dalle già indicate convenienze di breve periodo per molti dei settori politico-istituzionali coinvolti, che non si rendono conto (vista la mancanza di spiegazioni di insieme della materia tributaria), di nuocere all’interesse generale. La politica e le istituzioni si illudono di poter portare la determinazione contabile, tipica delle organizzazioni, dove queste ultime mancano, e quindi bisognerebbe determinare la ricchezza in modo valutativo: ne nascono illusioni (tracciabilità), complicazioni (precompilata), e comunque fallimenti rispetto all’obiettivo di ridurre l’evasione, sparsa su milioni di operatori individuali, o con piccole organizzazioni al consumo finale. Il fallimento, ormai evidente da decenni, genera frustrazione, e gli interventi sulla ricchezza non registrata si riducono al già indicato minimo sindacale (visto che le istituzioni sono consapevoli che la pubblica opinione sa che l’evasione è lì, benché non abbia voglia di dirlo). C’è però di peggio in quanto tali interventi vengono effettuati, vista la permanenza della tendenza di opinione “criminalistica” , e il timore di accuse di negligenza e corruzione, un po’ con fastidio e un po’ con fiscalismo auto-protettivo, il che innesca le proteste antifisco indicate sopra. Il fisco interviene poco, ma quanto lo fa, come per contrappasso, lo fa in modo abbastanza vessatorio, con la cattiva disposizione d’animo di chi sente di dover dare l’impressione di combattere la “lotta all’evasione”. Un espediente in merito sono le già indicate “contestazioni interpretative” , di cui però manca sempre più la materia prima, visto che nessuno elude più. Tuttavia, col già indicato “tutoraggio” verso i grandi contribuenti si insiste sul “regime del dichiarato”, forse per esorcizzare la mancanza di controllo del territorio su quello che non è visibile o fiscalmente registrato. Ne deriva un ostacolo alla crescita dimensionale delle organizzazioni produttive, in quanto la crescita organizzativa non solo rende più difficile il modo più immediato per ridurre il carico tributario, cioè evadere, ma espone di più ai controlli sulle contestazioni interpretative, in un contesto drammatizzato, in cui tutto quello che viene dichiarato o è comunque visibile si espone a capziose recriminazioni . Pian piano evadere non è più visto come “il problema”, bensì come “la soluzione”. Per farlo bisogna rimanere, in varia misura, piccoli e a proprietà familiare. Ciò si concilia con la tendenza, oltre certe dimensioni, a rinunciare ad aumentare le dimensioni aziendali per non perdere il controllo (meglio 50 milioni di giro d'affari dove comando io che 200 dovendo condividere il potere!). Per la massa dei contribuenti, in un contesto dove tutto quello che è visibile è contestabile, ma quello che non è visibile no, il punto non è più “agire correttamente, ma “essere presi oppure no”. E’ un sistema definibile, inferno del dichiarato, paradiso del sommerso, che spinge oggettivamente a adottare strutture medio piccole, in cui ci sia spazio per le varie forme di occultamento della ricchezza al fisco che la fantasia italica riesce a escogitare. L'unico modo per invertire questa tendenza è un coordinamento tra le tendenze di opinione in materia di determinazione dei tributi. 


[1] ) Se si doveva fare la “lotta all’evasione” l’attività di determinazione della ricchezza ai fini tributari degenerava in una specie di “battaglia” contro un fantomatico nemico, dove chi era più feroce era più bravo, e meno suscettibili di sospetti di corruzione. Da qui alle vessazioni , contro cui reagisce la seconda tendenza di opinione indicata nel testo, il passo è brevissimo.

[2] ) Al capitalismo familiare italiano non dispiace perché i loro titolari possono continuare a evadere quanto gli pare, se possono manipolare le proprie procedure amministrative: non se ne accorgerà mai nessuno finchè resta la pace in famiglia e non ci si denuncia tra fratelli

[3] ) Certo poi scappano dall’Italia, o tengono lontani i nuovi investimenti ma questo non è un problema delle istituzioni fiscali, bensì del paese.

[4] Per quanto il regime di quanto dichiarano, ma anche per le drammatizzazioni dell’attività di controllo.

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