Per iniziare bene l’anno (si fa per dire) è un buon viatico l’esame di una recente pronuncia con cui la Cassazione (n. 6977 del 2015), sovvertendo il proprio precedente orientamento, ha negato al contribuente il diritto a far valere in sede di accertamento di un maggiore imponibile lo scomputo delle perdite pregresse, non avendo esercitato tale diritto in dichiarazione.
Tutto il discorso della Cassazione si basa in realtà su una falsa premessa, ovvero l’idea che lo scomputo delle perdite pregresse postuli un’attività negoziale del contribuente, una sua facoltà discrezionale di scelta in ordine al momento in cui utilizzare le perdite. Trattandosi dunque di una scelta opzionale, la sua mancanza non potrebbe essere surrogata né dall’Amministrazione finanziaria né dal giudice.
Secondo la Corte, “il contribuente, con la stessa dichiarazione, viene ad esercitare una facoltà di opzione riconosciutagli dalla norma tributaria (art. 102 TUIR), potendo, alternativamente, scegliere liberamente o di portare in diminuzione dal reddito dichiarato le perdite (maturate nel precedente quinquennio), oppure di riportare nelle dichiarazioni relative ai successivi anni di imposta le perdite (verificatesi non anteriormente al quadriennio) non utilizzate per la compensazione. Tale opzione integra esercizio di un potere discrezionale di scelta nell'«an» e nel «quando» riconducibile ad una tipica manifestazione di autonomia negoziale del soggetto che è diretta ad incidere sulla obbligazione tributaria e sul conseguente effetto vincolante di assoggettamento alla imposta, e dunque eventuali errori della volontà espressa dal contribuente assumono rilevanza soltanto ove sussistano i requisiti di essenzialità e riconoscibilità ex art. 1428 c.c. norma che trova applicazione, ai sensi dell'art. 1324 c.c., anche agli atti negoziali unilaterali diretti ad un destinatario determinato".
Come detto si tratta di una tesi palesemente infondata, prima di tutto perché non è affatto vero che il contribuente ha margini di scelta circa la tempistica e le modalità con cui far valere il diritto allo scomputo delle perdite dai redditi degli esercizi successivi.
Basti infatti osservare che l’art. 84 Tuir (corrispondente al precedente art. 102), nel prevedere il diritto allo scomputo in compensazione delle perdite, impone che lo stesso abbia luogo immediatamente, dai redditi dell’esercizio susseguente e quindi dai successivi esercizi, “per l’intero importo che trova capienza nel reddito complessivo di ciascuno di essi”, e ciò per evitare che il contribuente possa effettuare una pianificazione fiscale in presenza di perdite pregresse, soprattutto nell’ambito Irpef dove operano aliquote progressive e vi è l’interesse al livellamento degli imponibili (sull’inesistenza di ogni margine di pianificazione fiscale e di discrezionalità del contribuente nella scelta delle modalità e tempi con cui far valere le perdite pregresse si è sempre schierata la dottrina, anche di estrazione ministeriale).
Mancando insomma ogni possibilità di scelta in capo al contribuente, che non esprime scelte negoziali ma si limita a utilizzare meccanicamente le perdite pregresse a scomputo degli imponibili degli anni successivi, secondo le modalità rigidamente indicate dalla legge (la perdita deve essere utilizzata non appena vi sia un imponibile positivo negli esercizi successivi, e per l’intero importo in cui vi è capienza), viene del tutto a cadere ogni aggancio alla tesi secondo cui l’Amministrazione finanziaria o il giudice non potrebbero sostituirsi alla (mancata) manifestazione negoziale del contribuente. Poiché, al contrario, l’utilizzo delle perdite è già interamente regolato in tutti i suoi aspetti dalla legge, e dal riporto a scomputo esula ogni facoltà di scelta da parte del contribuente, consegue che non vi sono ostacoli al riconoscimento delle perdite in sede accertativa e, ove l’Amministrazione non provveda, da parte del giudice.
La vicenda assume poi toni davvero paradossali, se si pensa che la Cassazione pretende dal contribuente, per riconoscere lo scomputo delle perdite, un comportamento inesigibile. L’indicazione di perdite a compensazione del reddito oggetto di una dichiarazione successiva può infatti ovviamente riferirsi soltanto all’imponibile oggetto di dichiarazione, e non a un (maggior) imponibile putativo, ove mai lo stesso dovesse emergere a seguito dell’attività di accertamento. E se anche fosse “Nostradamus”, il contribuente non potrebbe mai tecnicamente indicare in dichiarazione lo scomputo di perdite pregresse da imponibili meramente ipotetici che dovessero emergere in futuro per effetto di una rettifica in aumento della dichiarazione da parte dell’Amministrazione.
Questo ricorrente modo di decidere le cause fiscali da parte della Cassazione deve a mio avviso destare serie preoccupazioni: la Corte decide sulla base di interpretazioni – oltreché giuridicamente infondate – senz’anima, che dimostrano noncuranza dei reali interessi in gioco, cinismo e forse addirittura autocompiacimento per la “sottigliezza giuridica” della motivazione escogitata, non importa quanto infondata essa sia. La Cassazione tributaria si muove come un elefante in una cristalleria, applicando soluzioni palesemente in contrasto col sistema: possibile che i giudici non si rendano conto che il mancato riconoscimento di una perdita pregressa si traduce nella tassazione di un reddito inesistente e in una indebita incisione del patrimonio del contribuente? E possibile che non se ne accorga, ancor prima, l’Amministrazione finanziaria nell’opporsi alla richiesta del contribuente?
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