Tassazione della prima casa tra abolizione e riprogettazione del tributo

Il dibattito sull’abolizione dell’Imu-Tasi sulla prima casa sembra essersi avvitato su posizioni di segno diametralmente opposto. Ai sostenitori della proposta, non sorretta se non da un generico desiderio di rilanciare i consumi e la fiducia dei contribuenti, si contrappongono obiezioni ancor meno condivisibili.

Da ultimo, è stata addirittura evocata una incostituzionalità dell’abolizione dell’imposta su tutte le prime case per un’asserita violazione della progressività dell'imposizione, dimenticando così che il principio di progressività si riferisce al “sistema tributario”, mentre le singole imposte possono essere benissimo proporzionali se non addirittura regressive. Capisco che eliminare la tassazione della prima casa a tutti favorisce maggiormente i titolari di immobili di più elevato valore, ma contestare la costituzionalità della misura sarebbe come dire che non si possono abbassare le aliquote Irpef marginali, posto che queste avvantaggiano selettivamente i contribuenti a più alto reddito. Il punto è, come detto, che la Costituzione richiede la progressività del sistema (e non quella di tutte le imposte), e soprattutto che dato un certo “tasso” di progressività complessiva, il legislatore è libero – nell’esercizio della sua discrezionalità politica - di abbassarlo, in quanto non esiste un livello minimo di progressività da rispettare.

Il radicalizzarsi delle posizioni sul campo dipende anche dal fatto che esistono validi argomenti tanto a favore quanto contro un’imposizione sugli immobili in generale, e sulla prima casa in particolare.

A favore, va menzionata la rispondenza del tributo al principio del beneficio (i proprietari degli immobili si avvantaggiano, più di altri, dei servizi indivisibili resi dai Comuni – opere di urbanizzazione, pulizia e illuminazione stradale, sistema fognario, etc.) oltre che a quello della capacità contributiva (il patrimonio – immobiliare, ma non solo - rientra indubbiamente tra gli indici di capacità economica contemplati dall’art. 53 Cost.); l’essere gli immobili una insostituibile fonte di finanziamento per gli enti locali; la bassa o nulla occultabilità del presupposto, e così via.

Contro l’imposta possono tuttavia essere mosse diverse obiezioni, tra cui il fatto che il patrimonio è tassato senza tener conto dell'indebitamento, magari ad esso strettamente afferente, e i noti inconvenienti di “liquidità” del presupposto che presentano in genere le imposte patrimoniali; tali inconvenienti non rendono affatto in sé incostituzionale la tassazione dei patrimoni (è un indice di ricchezza anche un patrimonio illiquido), ma pongono un problema di esigibilità della prestazione tributaria che non può essere sbrigativamente risolto affermando che, se il proprietario di un’abitazione non ha la liquidità con cui pagare il tributo, può evitarlo semplicemente vendendo l’immobile (eppure è questa la risposta che danno alcuni economisti). 

I teorici della tassazione patrimoniale hanno sempre manifestato la preoccupazione per una “distruzione delle fonti produttive”, e concepito questo genere di tributi come prelievi intesi, in realtà, a colpire i redditi di fonte patrimoniale. Da qui le raccomandazioni sulla moderazione delle aliquote, onde essere certi che l’imposta non intacchi la fonte (il patrimonio), incidendo soltanto il reddito che ne deriva.

Oltretutto, in un patrimonio costituito da un unico immobile a uso abitativo, manca per definizione la "produttività della fonte" (l'immobile è abitato direttamente, non dato in locazione), e l'assenza di redditi capienti “a latere” da cui prelevare l’imposta non può trovare soluzione attraverso una vendita di una frazione del patrimonio posseduto, bensì soltanto con la sua dismissione in toto. Non potendo vendere il tetto, i serramenti o i sanitari, il proprietario non in possesso di risorse liquide né di altri beni liquidabili sufficienti ad assolvere l’onere tributario sarebbe dunque costretto a cedere l’abitazione, ammesso che il mercato sia in grado di assorbirla. E ciò non sembra esattamente in linea con l’art. 47 comma 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione. Un tributo che, per le sue caratteristiche, costringa il proprietario a vendere l’abitazione, contraddirebbe invece il favor verso la diffusa proprietà dell’abitazione.

La più plausibile risposta che si potrebbe dare ai temi evocati risiede, a mio avviso, non già nella drastica abolizione della tassazione su tutte le prime case, bensì in una riprogettazione del tributo che tenga conto dei seguenti criteri direttivi:

a) fermo restando, per le ragioni prima elencate, la tassabilità in linea di principio anche dell’abitazione principale, la stessa andrebbe anzitutto modulata in funzione del “valore” dell’immobile posseduto; potrebbe essere così istituita una soglia di esenzione corrispondente a un “minimo vitale abitativo”: se occorre favorire o comunque non rendere troppo difficoltoso l’accesso di tutti all’abitazione, ciò non significa che si debba garantire il diritto di abitare una villa principesca o un immobile di enorme pregio e valore senza corrispondere l’imposta. E sarebbe così rispettato il principio dell’accesso del risparmio popolare all’abitazione, garantendo a tutti il possesso di un’abitazione dignitosa ma non necessariamente signorile o di lusso;

b) la tassazione della “prima casa” andrebbe poi ulteriormente modulata in relazione al numero di immobili posseduti; e così, se ha senso limitare la tassazione o introdurre fasce di esenzione laddove la “prima casa” sia anche l’unica posseduta, questi limiti ed esenzioni non hanno più tendenzialmente ragion d’essere laddove il patrimonio immobiliare si componga di diverse unità abitative;

c) in terzo luogo, tenendo a mente gli insegnamenti sulla distinzione tra “oggetto” e “fonte” dell’imposta (A.Wagner), e cioè sul fatto che tutte le imposte, anche se non hanno per oggetto il reddito, si pagano in ultima analisi col reddito, occorrerebbe calibrare la tassazione tenendo conto appunto delle entrate complessive del proprietario; in effetti, non si vede quale senso vi sia nell’escludere dal tributo patrimoniale la “prima casa” in relazione a soggetti che palesano redditi ampiamente capienti per far fronte all’onere impositivo. Al contrario, tener conto dell'assenza di redditi con cui far fronte al pagamento eviterebbe il rischio di "vendite forzate" degli immobili.

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